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Nella vita bisogna avere il coraggio di volare.

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L'unico posto in cui puoi trovare la forza è dentro di te.

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Ogni tanto ricordati di amare qualcuno.

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Se vuoi che il mondo cambi, inizia a darti da fare tu stesso.

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Sai ancora sorprenderti dell'esistenza?

Corso di esistenza

giovedì 31 gennaio 2019

Hocus pocus - Kenny Ortega

Forse sono arrivato a Hocus pocus per la filmografia di qualche attore, o forse dopo averlo trovato in qualche elenco di vecchi film che vale la pena vedere.

Spero la prima delle due, giacché, dal mio punto di vista, Hocus pocus è l’emblema perfetto del vecchio vizio occidentale di ritenere i film per famiglie o per bambini, o anche i film d’animazione, prodotti di basso profilo semplicemente perché destinati (anche) ai bambini.

E in questi casi mi ricordo sempre la frase dello scrittore Lewis (l’autore de Le cronache di Narnia, nonché amico stretto di Tolkien, autore de Il signore degli anelli) per cui un buon libro per l’infanzia è meritevole di essere letto anche dagli adulti. E a questo riguardo penso sempre allo stesso Il signore degli anelli, a Lo hobbit, a La storia infinita, e via discorrendo.

Hocus pocus, invece, è un film facilone, semplicione, vuoto e superficiale in modo imbarazzante, in cui si salva solo qualche immagine fotografica degli sfondi.
Nel mezzo, umorismo infantile, e scene altrettanto infantili, ambientate nel giorno e nell’atmosfera di Halloween.

Andiamo a vederne la trama in modo sommario: il prologo del film ci porta nella Salem del 1693, quando le tre sorelle Sanderson, tre potenti streghe che son rimaste a lungo in vita letteralmente succhiando l’anima dei bambini, vengono catturare e giustiziate dalla popolazione.
Tuttavia esse non muoiono, ma semplicemente spariscono, in attesa di essere richiamate nella stessa Salem da qualcuno che accenderà una speciale candela dalla fiamma nera…
… il quale sarà ovviamente il protagonista della storia, tale Max, il quale dovrà poi affrontare la situazione insieme alla sorellina Dani e alla potenziale fidanzata Allison.

Riferita la trama sommaria, ecco il genere: commedia infantile costeggiata dall’elemento fantasy-fantastico, senza disdegnare qualche spunto non dico orrorifico ma comunque drammatico, come la questione delle anime rubate ai bambini.

Il punto è che il film è davvero leggero, e purtroppo nel senso negativo del termine; difficile che piaccia a qualcuno più anziano di dieci anni (o a qualche nostalgico che lo ha visto a quell'età)… e personalmente ritengo che i bambini non vadano nutriti con prodotti vuoti solo per far passare loro il tempo, ma che sia meglio proporre loro fin da subito cibo elevato, di qualunque cibo si tratti, da quello fisico vero e proprio a quello emotivo e concettuale tipico dell'intrattenimento.

Fosco Del Nero



Titolo: Hocus pocus (Hocus pocus).
Genere: fantasy, commedia.
Regista: Kenny Ortega.
Attori: Bette Midler, Sarah Jessica Parker, Kathy Najimy, Omri Katz, Thora Birch, Vinessa Shaw, Amanda Shepherd, Larry Bagby.
Anno: 1993.
Voto: 4.
Dove lo trovi: qui.

mercoledì 23 gennaio 2019

Le voci della nostra infanzia - Akio Nishizawa

Nel blog Cinema e film spesso capitano film d’animazione giapponese, giacché fin da ragazzino sono appassionato di anime e di mondo orientale in generale.
La nuova proposta è Le voci della nostra infanzia, lungometraggio d’animazione diretto nel 2006 da Akio Nishizawa… un regista che non conosco, e che dunque ho “testato” per la prima volta proprio con Le voci della nostra infanzia.

Ma non è stata una prima volta molto esaltante, per i motivi che dirò dopo.
Adesso, invece, introduco il film con la sua trama sommaria: siamo nel 1956, nel periodo post guerra, nella fase di ricostruzione del Giappone sconfitto. Nel dettaglio, siamo a Kobe, un quartiere di Tokyo, e, all’interno di una scuola media, assistiamo all’insediamento della signorina Sakamoto, la nuova insegnante di musica.
Insieme a lei, giunge anche Shizu Miyanaga, una ragazzina molto dotata per il canto, che da subito attrarrà le pur distanti e timide attenzioni di Akira Yanagisawa, il capoclasse della classe in questione.

Il film, che dapprima parte come una commedia, e piuttosto leggera, e che propone come tema principale un concorso di canto corale cui parteciperà la scuola, diviene poi tragedia, per motivi che non specifico in tale sede.
Il tutto assumerà dunque i toni della riflessioni sulla vita e sulle cose importanti della vita.

Cominciamo il commento del film dall’apparato tecnico: gli sfondi sono ben fatti e piacevoli alla vista, mentre l’animazione è decisamente meno bella, per utilizzare un eufemismo, e anzi i volti sovente sono contratti e poco credibili.

Questo però non è il principale difetto di Le voci della nostra infanzia, che sconta al contrario diversi altri punti deboli: un ritmo assai lento e spesso soporifero, una storia melodrammatica in modo forzato e pacchiano, una forte retorica di fondo pro Giappone… e infatti il film è una sorta di inno alla ripresa del Giappone del passato (il titolo originale stesso palesava tale vocazione nazional-popolare).
A confermare tale vocazione nazionale, il concorso corale proporrà svariate canzoni del passato giapponese, ovviamente mantenute in lingua originale… e anch’esse, ahimè, tendenzialmente melodrammatiche e noiosette.

Il risultato finale è che con Le voci della nostra infanzia non sembra nemmeno di trovarsi di fronte a un anime, e paradossalmente data la retorica nazional-popolare di fondo: non c’è la classica vitalità degli anime giapponesi (e dire che il film doveva proporre la ripresa del Giappone dopo la guerra), non c’è vivacità, non c’è colore vivo, ma tutto è un po’ smorto e melodrammatico, per l’appunto.

Si salvano solo gli sfondi dei disegni.
Bocciato senza appello futuro.

Fosco Del Nero



Titolo: Le voci della nostra infanzia (Furusato Japan).
Genere: anime, animazione, drammatico, storico.
Regista: Akio Nishizawa.
Anno: 2006.
Voto: 4.
Dove lo trovi: qui.


martedì 22 gennaio 2019

The witch - Robert Eggers

Non mi ricordo come mai mi fossi segnato il titolo The witch, di cui peraltro non sapevo nulla se non che avesse delle atmosfere cupe, forse persino da film horror… come infatti era.

A proposito del genere horror, devo dire che da ragazzo ero appassionato di film dell'orrore, ma poi la cosa mi è passata, semplicemente non ho più sentito l’esigenza di vederne.
Piuttosto che un horror “classico”, preferisco magari un film d’atmosfera… proprio come è The witch, opera che nel titolo richiama alla mente il celebre The Blair witch project, ma che nell’atmosfera generale ricorda invece più The village, ed è a quest’ultimo che vien più facile paragonarlo, anche per il suo rimanere sospeso fino alla fine nel dubbio tra soprannaturale e psicologico, dubbio che, per la cronaca, alla fine The witch scioglierà in modo netto.

Ecco in breve la trama di The witch, esordio alla regia dello scenografo Robert Eggers, e la cosa si nota giacché la scenografia e la fotografia, ossia la parte estetica del film, sono probabilmente l’elemento più meritorio e ben riuscito: siamo nel New England del 1630, quando William viene cacciato da una comunità perché troppo estremo nell’interpretazione delle scritture bibliche. Egli, dunque, si allontana, insieme alla moglie Katherine e ai suoi cinque figli, e va a vivere in una fattoria isolata vicino a una foresta.

Qua succede di tutto: il neonato Sam sparisce nel nulla mentre la primogenita Thomasin, vera protagonista del film, stava giocando con lui, e non si sa se sia stato un lupo o una strega o cos'altro; i gemelli Mercy e Jonas affermano di parlare col caprone nero; il secondogenito Caleb, confuso e riempito fino all’orlo di superstizione religiosa, sparisce egli stesso nella foresta, per poi riapparire nudo e in fin di vita. In tutto ciò, Thomasin viene accusata dai suoi stessi genitori di essere una strega, in un crescendo di turbamento, dubbio, sospetto e ossessione.

Queste ultime sono proprio le parole chiave del film, che non offre letteralmente nient’altro oltre a un aspetto scenico ben curato ("bello" sarebbe forse una parola poco adatta, giacché tutto sa di decadenza e di ombra) e a una tensione emotiva e psicologica che si avvicina man mano alla paura e alla follia…
… e a buon diritto, andrebbe aggiunto, dato quel che capita nel film.

The witch si inserisce in quel filone di film d’atmosfera un po’ gotico, immerso nella natura e nelle superstizioni del passato, e in questo ha un suo fascino, sempre che il genere interessi.
Peccato che tutto sia molto limitato, e per certi versi poco credibile, a cominciare dalla psicologia dei personaggi e dai dialoghi. Va bene la superstizione dei tempi passati, ma che un'intera famiglia passi dal considerare la figlia che si conosce da sempre dapprima una brava ragazza e poi una malefica strega alleata col demonio è un po’ forzato… come è poco comprensibile, dato il dubbio su chi fosse stregonesco in famiglia (quale dei figli, e nel caso se pure il caprone), rinchiuderli tutti in una stalla per una notte appassionata.

Ma se vogliamo questi sono dettagli, nel senso che i film horror spesso si contraddistinguono per incongruenze o per poca credibilità nelle scelte dei personaggi (notoriamente poco brillanti... altrimenti non sarebbero finiti in una storia horror), mentre ciò che conta è che The witch ha successo nel tratteggiare un dipinto (il film sembra proprio un dipinto, scuro e cupo) in cui la collettività umana è percepita come nemico, la natura è percepita come nemico, i mondi invisibili sono percepiti come una minaccia, etc.

Tra peccato, ossessione, turbamento, superstizione e sospetto, ecco che abbiamo The witch, film di buon successo che piacerà o meno a seconda di quel che si cerca in un film. Il film, dal canto suo, come detto è ben fatto.

Fosco Del Nero



Titolo: The witch (The witch).
Genere: horror, psicologico, drammatico.
Regista: Robert Eggers.
Attori: Anya Taylor-Joy, Ralph Ineson, Kate Dickie, Harvey Scrimshaw, Lucas Dawson, Ellie Grainger, Julian Richings, Bathsheba Garnett.
Anno: 2015.
Voto: 6.5.
Dove lo trovi: qui.


giovedì 17 gennaio 2019

Dorian Gray - Oliver Parker

Sono sempre attratto dalle conversioni cinematografiche dei grandi classici della letteratura europea… ma, ahimè, quasi sempre ne sono deluso, come il recente caso di Bel Ami.
Dorian Gray purtroppo non fa eccezione.

Intanto occorre dire una cosa: il film è liberamente tratto dal libro di Oscar Wilde, ma davvero liberamente, nel senso che molto viene cambiato, e alla fine rimane l’idea di fondo o poco più.

Al di là dei cambiamenti di trama o personaggi, quel che più delude è che, piuttosto che cercare la conversione artistica di un’opera artistica, è stato creato un prodotto ad uso e consumo della massa, quella massa che magari non ha mai letto Il ritratto di Dorian Gray, in buona sostanza puntando tutto sull’aspetto pruriginoso della vicenda piuttosto che su quello introspettivo-psicologico, che nel testo è viceversa prevalente.

Ecco così che Dorian Gray si trasforma letteralmente, sia nell’aspetto fisico (passa da essere un tipico ragazzo nordico, biondo e con occhi azzurri a un belloccio hollywoodiano di quelli che van di moda oggi, glabro, efebico e dai lunghi capelli scuri), vengono aggiunti rapporti omosessuali (e anche questi van di moda a Hollywood), vengono tolti o aggiunti personaggi o riferimenti, viene inventata un’infanzia tormentata, vien fatto intendere che nel quadro vi sia un’entità maligna esterna a Dorian, vien dato largo spazio a scene di orge e ai piaceri della carne…
… perché è ciò che desidera vedere il grande pubblico in quanto quelle sono le sue stesse energie.

Ma in realtà si possono anche produrre tanti film destinati al largo pubblico senza scomodare i grandi classici della letteratura europea.
E ovviamente vengono scomodati quei classici che si prestano a tali letture, mentre le conversioni cinematografiche da Tolstoj o Bulgakov latitano, chissà come mai...

Torniamo al nostro Dorian Gray: scenografia, costumi e fotografia sono di buon livello, come si conviene a produzioni in grande stile come questa.
Anche i personaggi principali sono in parte e rendono bene, per quanto i secondari invece avrebbero potuto fornire un miglior contorno.

I dialoghi sono spesso sostenuti, ma un poco vuoti come il resto del film… ma questo si potrebbe imputare alla filosofia di vita dandy, e dunque ci potrebbe anche stare.

Nel complesso, il film di Oliver Parker, regista che non a caso non ho mai visto e non si è mai segnalato per produzioni di alto livello, mi ha assai deluso.
Attendiamo tempi artistici migliori.

Fosco Del Nero



Titolo: Dorian Gray (Dorian Gray).
Genere: fantastico, drammatico, psicologico.
Regista: Oliver Parker.
Attori: Ben Barnes, Colin Firth, Ben Chaplin, Rebecca Hall, Fiona Shaw, Emilia Fox, Rachel Hurd-Wood, Caroline Goodall, Pip Torrens.
Anno: 2009.
Voto: 4.5
Dove lo trovi: qui.


mercoledì 9 gennaio 2019

L’avvocato del diavolo - Taylor Hackford

Non avevo mai visto L’avvocato del diavolo, nonostante la grande fama del film e nonostante lo conoscessi di nome da molto tempo.
Peraltro, tendo a vedere volentieri i film con Keanu Reeves, dato che si tratta spesso di produzioni importanti e sovente ben riuscite (MatrixLe riserve, ConstantineDracula, etc), eppure questo non lo avevo mai calcolato, e nemmeno ne conoscevo la trama.

Non sapevo dunque dove il film sarebbe andato a parare, anche se avevo vaghi ricordi di informazioni, e fin da subito il personaggio interpretato da Al Pacino mi aveva insospettito.
Al contrario di Reeves, che ho visto in decine di film, questo è solamente il secondo film in cui vedo Al Pacino, dopo Carlito's way (a posteriori aggiungo anche Dick Tracy).
Non amando difatti film drammatici, su mafia, violenza e simili, la carriera di Al Pacino mi è risultata meno interessante di quella di Keanu Reeves, viceversa coinvolto spesso in produzioni brillanti, fantastiche e a volte anche dal sapore esistenziale (come Matrix, ma penso anche a The gift – Il dono, A scanner darkly - Un oscuro scrutare, Il piccolo Buddha).

Ma torniamo a L’avvocato del diavolo, film che parte come commedia, vira man mano verso il drammatico, insinua ogni tanto venature orrorifiche, e poi termina come un film fantastico-grottesco.

Ecco in grande sintesi la trama de L’avvocato del diavolo, tratto da omonimo romanzo di Andrew Neiderman (ma a quanto pare vengono citati altri testi, a cominciare dal Paradiso perduto di John Milton, per arrivare a Quell’orribile forza di C.S.Lewis): Kevin Lomax (Keanu Reeves) è un giovane e brillante avvocato che vive in Florida insieme alla bella moglie  Mary Ann (Charlize Theron). Infila un successo dietro l’altro, tanto che viene tenuto d’occhio sia dalla stampa che da importanti studi legali: uno di essi gli offre un impiego, e la coppia vola fino a New York. Dapprincipio pare tutto bello: la città, la casa in cui viene mandato ad abitare, capo e colleghi di lavoro…
… tuttavia man mano la musica cambia, e di molto: Kevin viene letteralmente risucchiato dal lavoro e la sua coscienza subisce nuovi colpi, Mary Ann inizia a vedere cose strane e spaventose, anche la madre di Kevin, molto religiosa, pur non vedendo nulla, percepisce un’atmosfera che la spaventa.
E a ben ragione: Kevin è finito difatti dritto nella tana del diavolo… e non senza colpe, diciamo.

L’avvocato del diavolo è un film davvero curioso: mantiene per tutta la sua durata un’aria da commedia, grazie soprattutto al personaggio guascone di Al Pacino, mentre il versante drammatico è devoluto soprattutto al personaggio di Charlize Theron (lei già vista ne La leggenda di Bagger VanceAeon FluxHancockLa maledizione dello scorpione di giada).
Keanu Reeves sta letteralmente nel mezzo, sulle prime apparentemente di successo e padrone di sé, e in seguito decisamente meno padrone di sé.

Devo dire di aver gradito il film, che per certi versi mi ha ricordato l’altro psico-horror-thriller Allucinazione perversa, ma che a suo confronto rimane più sul terreno e sul grottesco, se non proprio sulla commedia: d’accordo, temi ed eventi sono assai drammatici, ma il John Milton di Al Pacino la mette sempre sul ridere, col film che rimane dunque a mezz’asta per tutta la sua durata, risultando comunque gradevole e coinvolgente.

Anzi, ora che l’ho visto in questa veste, ogni volta che vedrò Al Pacino penserò a questo suo riuscitissimo personaggio.

Chiudo con un'interessante citazione tratta dal film, il cui senso peraltro costituisce l'intero asse portante dell'opera.

"E' una prova, vero?"
"Non è sempre una prova?"

Fosco Del Nero



Titolo: L’avvocato del diavolo (The Devil's advocate).
Genere: drammatico, thriller, fantastico.
Regista: Taylor Hackford.
Attori: Keanu Reeves, Al Pacino, Charlize Theron, Jeffrey Jones, Judith Ivey, Connie Nielsen, Craig T. Nelson, Tamara Tunie, Ruben Santiago-Hudson.
Anno: 1997.
Voto: 7.
Dove lo trovi: qui.


martedì 8 gennaio 2019

Hugo Cabret - Martin Scorsese

Oggi siamo insieme a Hugo Cabret, film diretto da Martin Scorsese nel 2011.

Prima annotazione: il film è tratto dal romanzo La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick, e ci proietta nella Parigi degli anni "30, in una vicenda a metà tra storia e fantasia.

Seconda annotazione: il film tratteggia il lavoro e il personaggio storico di Georges Méliès, considerato il padre del cinema moderno: se l’invenzione del cinema spetta ai fratelli Lumière, Georges Méliès è l’ideatore di numerose tecniche che poi sono divenute la base del cinema dei decenni seguenti, fino ai giorni nostri.
Il montaggio, gli effetti speciali, il cinema di genere fantastico, e fu anche uno dei primi a usare il colore.

Terza annotazione: il film è un film ad alto budget, fatto evidente in tutto, a partire dalla magnificenza della scenografia. Nonché nell’utilizzo di attori di nome persino in parti secondarie: Jude Law, ad esempio, oppure Christopher Lee o Emily Mortimer Match.
I protagonisti sono invece i piccoli Asa Butterfield (Ender's game, Miss Peregrine - La casa dei ragazzi speciali) e la bravissima Chloe Grace Moretz (Dark shadows, 500 giorni insieme, Kick-Ass), di cui sentiremo senza dubbio parlare in futuro.

Ecco in sintesi la trama di Hugo Cabret: Hugo è un dodicenne orfano che vive nella stazione di Parigi Montparnasse negli anni "30.
Persa la madre, ha vissuto col padre finché egli non è morto, e allora è stato preso in custodia dallo zio, manutentore degli orologi della stazione, che però un giorno sparisce nel nulla (lo zio, non la stazione).
Hugo, non avendo altri parenti e non volendo finire all’orfanotrofio, rimane a vivere negli appartamenti nascosti della stazione, continuando a tenere funzionanti gli orologi, e sopravvivendo grazie a qualche furtarello, sperando che nessuno si accorga di niente.
La sua grande passione è ciò a cui stava lavorando con suo padre: un vecchio automa capace di scrivere, una volta riparato, e che Hugo è convinto che possieda un messaggio del padre a lui stesso (a Hugo, non al padre).
La sua strada si incrocerà con quella di Georges e della figlia adottiva Isabelle, mentre al contrario farà di tutto per tenersi alla larga dall’ispettore ferroviario Gustav, che non vede l’ora di stanarlo.

Hugo Cabret è una storia curiosa e discretamente interessante, ma non trascinante o indimenticabile.
Il cast è buono, soprattutto Ben Kingsley e la piccola Chloe Grace Moretz, così come sono ottima la scenografia, la fotografia e i costumi: pare davvero di entrare in quegli anni, per quanto in un micromondo (la stazione ferroviaria di Parigi e poco più, giacché non si vede quasi nient’altro).

I dialoghi non sono irresistibili, e anche certe scelte di sceneggiatura non convincono appieno.
E devo aggiungere una cosa: così come vi sono certi registi per cui ho una passione particolare, ve ne sono altri che non mi dicono molto… e uno di questi è Martin Scorsese. Di cui infatti ho visto poco (Re per una notte, New York stories), e quel poco l’ho trovato un po’ pacchiano e pesante (meglio invece in Shutter Island).

Anche Hugo Cabret rischia di essere pesante, giacché dura più di due ore e non ha chissà quali contenuti, di trama o di interesse… ma si salva soprattutto per la grande bellezza visiva che produce.

Il film ha vinto un’enorme quantità di premi… non molto giustificati a mio avviso, ma tant’è.

In certi tratti il film mi ha ricordate le atmosfere dei film di Jean Pierre Jeunet (Il favoloso mondo di AmelieLa città dei bambiniUna lunga domenica di passioni)… e probabilmente sarebbe risultato più bello se lo avesse diretto lui.

Fosco Del Nero



Titolo: Hugo Cabret (Hugo).
Genere: commedia.
Regista: Martin Scorsese.
Attori: Asa Butterfield, Chloe Grace Moretz, Sacha Baron Cohen, Ben Kingsley, Ray Winstone, Emily Mortimer, Jude Law, Johnny Depp.
Anno: 2011.
Voto: 6.
Dove lo trovi: qui.

mercoledì 2 gennaio 2019

Piccolo Buddha - Bernardo Bertolucci

Devo essere onesto: Piccolo Buddha era un film che mancava, sia nel blog tra le recensioni, ma soprattutto all’interno della mia lista di film consigliati di genere esistenziale (Film che aprono la mente... o il cuore).
Peraltro, essendo il film piuttosto famoso, lo conoscevo di nome, e ne avevo anche visto qualche stralcio, ma mai tutto intero, per cui questa è la prima visione, dovuta al suggerimento di un lettore che me lo ha riportato all’attenzione, e devo dire che ne sono rimasto contentissimo.

Peraltro, doppia mancanza, Piccolo Buddha è un film in buona parte italiano: diretto dal nostro Bernardo Bertolucci, è una coproduzione italo-franco-britannica, per quanto ambientata in tutt’altri luoghi, tra Stati Uniti, Bhutan, Nepal e India.

Partiamo con la trama sommaria: un monaco tibetano, Lama Norbu (Ying Ruocheng), il quale vive in un monastero del Bhutan dall’occupazione cinese del Tibet in poi, si reca a Seattle alla ricerca dell’incarnazione del suo vecchio maestro Lama Dorje, identificata in un bambino di una decina d’anni, Jesse (Alex Wiesendanger), i cui genitori, però, Dean (Chris Isaak) e Lisa (Bridget Fonda), son tutt’altro che vicini alle idee della reincarnazione e del buddhismo, pur non negandole aprioristicamente.
Il piccolo Jesse non è l’unico “candidato”, ma ve ne sono altri due: l’ancor più piccolo Raju e la più navigata Gita.
Jesse e il padre intraprenderanno un viaggio a seguito di Lama Norbu e dei suoi colleghi monaci per scoprire chi è la vera reincarnazione di Lama Dorje.

Intanto due premesse: la prima è che Piccolo Buddha è la conversione cinematografica dell’omonimo romanzo di Gordon McGill.
La seconda è che questa per me è una “prima visione”: non solo del film in sé, ma anche di Bridget Fonda e Chris Isaak, mai apparsi finora nel blog, nonché dello stesso Bernardo Bertolucci, di cui andrò a vedermi qualcos’altro.

Non è invece la prima di Keanu Reeves, che è il protagonista della storia parallela, quella del Siddharta che diventa il Buddha vero e proprio, il quale è al contrario uno degli attori che ho più visto in assoluto: Matrix, Matrix reloaded, Matrix revolutionsConstantineA scanner darkly - Un oscuro scrutare, La vita segreta della signora LeeLe riserveThe gift - Il dono, La casa sul lago del tempo47 ronin, Man of tai chi.

Il cuore di Piccolo Buddha non è tuttavia la storia di Jesse, la quale è solo una scusa, e nemmeno la rappresentazione della ricerca e dell’illuminazione di Siddharta, bensì gli insegnamenti buddhisti portati man mano durante il film… e ancora di più, oserei dire, l’atmosfera di fondo, davvero bella: al contempo serena, dolce, amorevole, ampia.

In questo senso, Piccolo Buddha è un grande film, e anzi si ha la sensazione di guardare più film contemporaneamente, e non solo per il doppio binario Jesse-Siddharta, con le due storie che sono egualmente godibili e ben eseguite e che ben rappresentano il contrasto tra la ricerca dei beni materiali, i quali deperiscono fino ad essere scheletri vuoti (non a caso il padre di Jesse sta affrontando una crisi personale, professionale ed economica) e la ricerca della pienezza interiore, che al contrario non deperisce ma è durevole.

Il film entra dunque dritto filato nella lista dei film consigliati per i loro contenuti profondi, e la recensione vien chiusa da una lista di frasi significative contenute nel film.

“C'era una volta, in un villaggio dell'antica India, una capretta e un sacerdote. Il sacerdote voleva sacrificare la capra agli dei, e sollevò la mano per tagliarle la gola. Quando tutto a un tratto la capra si mise a ridere. Il sacerdote si fermò stupefatto e domandò alla capra: "Perché ridi? Non lo sai che sto per tagliarti la gola?"
"Oh, sì", disse la capra, "Dopo 499 volte che sono morta e poi rinata come capra, questa volta rinascerò come essere umano."
Poi la capretta si mise a piangere.
Il sacerdote disse: "Perché piangi adesso?".
E la capra risposte: "Perché, povero sacerdote, 500 vite orsono anche io ero un gran sacerdote e sacrificavo le capre agli dei".
Allora il sacerdote cadde in ginocchio, dicendo: "Perdonami, ti supplico, d'ora in poi sarò guardiano e protettore di tutte le capre del paese". 
Che cosa ci insegna quest'antica favola?
Che nessuna creatura vivente deve mai essere sacrificata.”

“Stavamo ammirando il vuoto di questa stanza.”
“Nessuna stanza è veramente vuota, se la tua mente è piena.”

“Esistono alcuni esseri molto speciali che tornano sulla Terra come guide spirituali.”

“Sono venuto al mondo per raggiungere l'illuminazione e per liberare dalla sofferenza tutte le creature.”

“Gli dei deludono spesso i desideri degli esseri mortali.”

“Non occorre andare altrove quando c’è tanta bellezza intorno a te.”

“La moglie e il figlio erano bellissimi.
Ma essi dormivano, mentre lui era sveglio.
Tutta la corte era in preda a un sonno profondo.
Ma per Siddharta il sonno stava finendo: il suo lungo viaggio verso il risveglio era iniziato.”

“Se impariamo a meditare nel modo giusto, possiamo raggiungere l'illuminazione.”

“Se tendi la corda oltremisura, si spezzerà.
E se la lasci troppo lenta, non suonerà.”

“La strada dell’illuminazione sta nella via di mezzo.
È la linea che sta tra tutti gli opposti estremi.”

“Il quadrato alla base dello stupa è il simbolo della terra.
La cupola è il simbolo dell'acqua.
Al di sopra degli occhi c'è il livello dell'illuminazione, ovvero il fuoco.
L'ombrello in cima è il simbolo dell'aria.”


“Architetto, finalmente ti ho incontrato.
Tu non ricostruirai più la mia casa.”

“Oh, signore del mio ego, tu sei pura illusione.
Tu non esisti.”

“Siddharta aveva vinto la battaglia contro un esercito di demoni con la sola forza dell’amore e della grande compassione che aveva trovato in sé.
E così aveva raggiunto la grande calma che precede il distacco dalle emozioni.
Si era spinto oltre se stesso.
Era andato oltre la gioia e il dolore, al di là di ogni giudizio.”

“Ogni movimento nell’universo è un effetto determinato da una causa.”

“Non vi può essere salvezza se non vi è compassione per tutte le altre creature.”

“Ognuno di noi è collegato agli altri, come lo è il mondo con l’universo.”

“La cosa più importante di tutte è provare compassione per tutti gli esseri, donare sé stessi e soprattutto trasmettere la conoscenza come il Buddha.”

“Come vedi, io non sono un grande esempio del distacco che chiede il Buddha.
Bambini... siamo tutti bambini.”

“Noi moriamo continuamente, ogni secondo.
Questo fa parte della vita.
Ogni volta che respiriamo, moriamo.”

“La forma è vuoto, il vuoto è forma.
Non più occhi, orecchie, naso, lingua, corpo, mente.
Non più colore, suono, olfatto, gusto, tatto, cose esistenti.
Non più te, né morte, né paura.
Non più vecchiaia, né morte, non più fine della vecchiaia e della morte.
Non più sofferenza, non causa di sofferenza o fine della sofferenza.
Non è strada, non è saggezza, e non è vantaggio, non è vantaggio.
Così i bodhisattva vivevano nella perfezione della comprensione senza interferenza della mente. Niente interferenza, quindi niente paura, oltre ogni illusione.
Questo è il nirvana.”

Un ultimo commento, su un dettaglio: la madre di Siddharta, ossia del futuro Buddha, si chiama Maya. Il senso è molto chiaro: si nasce dentro Maya... ma poi bisogna liberarsi dall'illusione e conquistare la libertà.

Fosco Del Nero



Titolo: Piccolo Buddha (Little Buddha).
Genere: esistenziale, commedia.
Regista: Bernardo Bertolucci.
Attori: Bridget Fonda, Keanu Reeves, Ying Roucheng, Chris Isaak, Alex Wiesendanger, Jo Champa.
Anno: 1993.
Voto: 8.
Dove lo trovi: qui.


martedì 1 gennaio 2019

Piccolo grande uomo - Arthur Penn

Mi è stato detto che Piccolo grande uomo è una specie di classico, e me lo sono visto, pur non avendolo mai sentito nominare. Forse aiutato in questo anche dalla mia mancata passione per il genere western…

… anche se occorre dire che di western Piccolo grande uomo ha solo l’ambientazione, ma non tanto il genere, che difatti oscilla tra la commedia e il drammatico, l’avventura e persino il grottesco, data la bizzarria di tutta la storia.

Essa, tratta tra l’altro da un romanzo di Thomas Berger, comincia la sua narrazione con un’intervista al vecchio Jack Crabb, ora anziano di ben 121 anni ospite presso una casa di riposo.
Egli è intervistato da un giornalista interessato alla battaglia di Little Big Horn, a cui l’anziano uomo racconta assai di più con le sue peripezie e militanze varie, tra cittadine americane, villaggi indiani ed esercito americano, in una strana oscillazione tra Custer e Buffalo Bill, tra cultura indiana e cultura americana.

Jack, da bambino, è l’unico sopravvissuto insieme a sua sorella Caroline a un massacro operato da una tribù indiana, ed è poi ritrovato e cresciuto da un’altra tribù indiana, questa più benevola, di cheyenne.
Mentre sua sorella una notte scappa, lui cresce come un indiano, ed è chiamato “Piccolo grande uomo”: piccolo per via della sua statura, e grande per via del suo coraggio.
Tutto scorre placido e felice, fino a che l’uomo bianco non stermina un loro villaggio, donne e bambini compresi, tanto che il capo Cotenna di Bisonte, sorta di padre adottivo per Jack, decide di scendere in guerra contro gli americani… ma sarà una carneficina, e Jack si salverà solo mostrandosi come uomo bianco americano.
Tornerà così a vivere presso i “visi pallidi”, in una sorta di altalena tra una cultura e l’altra, tra uno stile di vita e l’altro, in modo a dir poco instabile.

Piccolo grande uomo è una sorta di smitizzazione del genere western; non una parodia, ma non ci manca molto.
Molto bravo Dustin Hoffman (Tootsie, Ishtar, I heart huckabees, Rainman), come sempre, mentre tutto il resto (tutti gli altri) pare più macchia di contorno di un affresco semi-umoristico.
Quanto ai fatti esposti, non ho conoscenza a sufficienza di quel periodo per affermarli come storici o come mitologici (dai massacri indiani alla figura del generale Custer al passaggio delle donne da una sponda all’altra).

Ad ogni modo, sta di fatto che il film all’epoca presentò un punto di vista nuovo della questione indio-americana, e che riscosse vari premi e buon successo.

Quanto al mio gradimento, è stato appena sufficiente: il film non mi è dispiaciuto del tutto, ed è sicuramente un buon prodotto cinematografico, ma, un po’ per il dubbio sottofondo storico un po’ per l’improbabilità degli eventi di vita di Jack Crabb, sorta di banderuola al vento delle Americhe, non mi ha esaltato.

Fosco Del Nero



Titolo: Piccolo grande uomo (Little big man).
Genere: drammatico, commedia, avventura, western.
Regista: Arthur Penn.
Attori: Dustin Hoffman, Faye Dunaway, Martin Balsam, Richard Mulligan, Jeff Corey, Aimée Eccles, Kelly Jean Peters, Carole Androsky, Chief Dan George, Robert Little Star.
Anno: 1970.
Voto: 6.
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